martedì, novembre 05, 2013

martedì, agosto 20, 2013

Ritorno ai Nirvana - La riedizione di "In Utero"

Il terzo album della band, che seguì il clamoroso successo di "Nevermind", riesce 20 anni dopo, rimasterizzato. Lo presenta Krist Novoselic, ex bassista del gruppo mito anni '90: "È il nostro omaggio a Kurt"

di GIUSEPPE VIDETTI

Tre album per entrare nella storia del rock e metterla a soqquadro. Un colpo di fucile per restarci da martire. La storia dei Nirvana è stata fulminante, la loro musica ancora esplosiva. Al suo potere si è inchinato anche Paul McCartney, che a luglio ha chiamato sul palco di un concerto a Seattle i due superstiti Krist Novoselic e Dave Grohl (insieme a Pat Smear, il chitarrista che accompagnò l'ultimo tour dei Nirvana) per eseguire Helter skelter. Le canzoni sono diventate il sudario di Kurt Cobain, il messaggio è andato ben oltre la grunge generation. Si suicidò il 5 aprile del 1994, a 27 anni; In utero, il terzo album della band, era stato pubblicato sei mesi prima.

Per celebrarne il ventennale il 23 settembre esce una versione deluxe in tre cd con inediti - oltre settanta brani rimixati - e il video integrale del concerto Live and Loud che i Nirvana tennero il 13 dicembre del 1993 al Pier 48 di Seattle. Doveva essere il disco della redenzione, fu quello della dannazione; la mission impossible di Kurt Cobain - ristabilire la credibilità indie dei Nirvana dopo l'exploit da trenta milioni di copie di Nevermind. Una decisione che, come ha confessato il produttore Steve Albini, generò una spaventosa pressione dell'industria che mandò in tilt il fragile sistema del leader. Lo conferma anche Krist Novoselic, ex bassista dei Nirvana: "Kurt ha pagato per tutti. La riedizione di In utero è anzitutto un tributo a lui, un artista puro, mai presuntuoso, mai supponente. La prima cosa che abbiamo pensato è dare ai fan materiali inediti, li aspettano da vent'anni. Nella confezione c'è anche un dvd con le riprese di un intero concerto in HD".

Cosa rende la vostra musica ancora così attuale?
 "Tutto merito di quell'artista visionario che era Kurt Cobain. Insieme a lui cercammo di parlare la stessa lingua di una generazione. Non ci rendemmo conto del peso che le nostre canzoni avevano fin quando non cominciammo a confrontarci con il pubblico; un'infinità di ragazzi veniva a raccontarci quanto e quale importanza avessero quelle canzoni sulla loro giornata, sulle loro vite e persino sulle loro estati. Era come se il grunge avesse spazzato via l'idea delle vacanze a base di tormentoni. "Siete voi la nostra colonna sonora", ci dicevano. Così capimmo che i nostri dischi non solo creavano una sorta di rapporto intimo tra noi e i fan ma anche tra i ragazzi. Un fenomeno non facile da spiegare, non ci riusciva neanche Kurt, non era facile per lui sopportare il peso di quella responsabilità".

Che fase stavano attraversando i Nirvana nel 1993, quando entraste in studio per incidere In utero? 
"Kurt era devastato dai problemi personali. Ci riunimmo tutti a Seattle nel tentativo di trovare una via d'uscita attraverso la musica. La sua idea era di recuperare a tutti i costi il suono dei primi Nirvana, per questo ci rinchiudemmo in uno studio isolato del Minnesota, irraggiungibili da chiunque, tutt'intorno solo neve e animali (era febbraio). In utero vide la luce in quella specie di Siberia inospitale. Kurt non mollava, aveva in mente di trasformare la pop band che eravamo diventati con Nevermind in un "vero" gruppo rock - un percorso all'inverso difficile e doloroso. La prima canzone che registrammo, Serve the servants, è una sorta di manifesto di questo pensiero".

Se ne parlò moltissimo all'epoca; la band - Kurt soprattutto - non era soddisfatta del suono di Nevermind.
 "Nevermind diventò il figlio della colpa, messo in croce perché ci aveva trasformato in un gruppo troppo famoso. Io non ero del tutto d'accordo con Kurt; è vero, è un album più raffinato, ma ci sono tanti dischi raffinati che adoro. Per me Nevermind resta un disco importantissimo, e non solo per il successo che ha avuto, ma per il valore intrinseco che gli riconosco. Ovvio che In utero è una creatura diversa, il mostro creato per distruggere il mostro. Oggi, riascoltandoli, li trovo entrambi entusiasmanti".

A quel punto della vostra carriera eravate il gruppo di punta non solo del grunge ma del rock contemporaneo; era difficile conciliare i bisogni della band con quelli di un'anima fragile e uno spirito irriducibile come Kurt? 
"C'era uno squilibrio all'interno dei Nirvana che rendeva le cose anche più difficili di quanto si immagini. Era sempre e solo Kurt a subire il peso della pressione che si scatenò sulla band dopo Nevermind, da parte del pubblico e dell'industria. Era lui il cantante, il frontman, l'autore delle canzoni e ormai anche un simbolo. Dall'altra parte della barricata non c'era il paradiso, ma un altro inferno causato dai molti problemi personali che lo assillavano".

Onestamente, lei crede che dopo il trionfo di Nevermind i Nirvana avrebbero potuto recuperare quella purezza che Cobain vagheggiava? 
"A livello di suono ci riuscimmo. Quando riascoltammo In utero, alla fine delle due settimane in Minnesota, il risultato era decisamente quello che ci eravamo prefissi. Nel disco non c'erano concessioni commerciali. Dopo molte insistenze da parte della casa discografica, rimixammo solo un paio di canzoni. Ma al di là di questo, In utero è un disco purissimo e realizzato senza interferenza alcuna, e soprattutto come se Nevermind non fosse mai esistito. Noi eravamo ben consapevoli che la grandezza di Kurt come autore era indissolubilmente legata al suo malessere e alla sua disperazione; ed era lui che i fan adoravano".

Questo è il punto: quanto può essere pericoloso per un artista diventare l'idolo (e nel caso di Cobain il martire) di una generazione? 
"Sono vent'anni che ci penso e non ho ancora trovato la risposta. La verità è che noi cominciammo a suonare perché non sapevamo fare altro, avevamo 20 anni, il rock era la nostra vita e la nostra religione. Quello che è successo non è dipeso dalla nostra volontà, quindi suppongo che un artista diventi un simbolo anche senza volerlo. Una cosa è certa, quando ci sei dentro la pressione può essere micidiale". 


(articolo tratto da http://www.repubblica.it/spettacoli/musica)

lunedì, luglio 29, 2013

Un immenso Neil Young strega Lucca con un concerto memorabile



di: Alvise Losi

Neil Young si è esibito in concerto a Lucca regalando a tutti i presenti una performance da ricordare a lungo. Ecco la recensione dello spettacolo.

Lucca, Piazza Napoleone, 25 luglio 2013. Dio esiste. È canadese. E si chiama Neil Young. Nessuno si offenda, non si vuole essere blasfemi. Impossibile però trovare parole o paragoni sufficienti a rendere giustizia al concerto del cantante in piazza Napoleone a Lucca. L’esibizione andata in scena non era di un uomo, ma di un essere sovrannaturale. Un dio della musica che ha deciso di mostrarsi ai comuni mortali e condividere un momento di pura estasi con i pellegrini arrivati di fronte a lui. La voce, assolutamente integra, è quella di un tempo. A sorprendere ancora di più però sono le qualità del Young musicista. Si dimostra una volta di più, per chi non lo conoscesse in queste vesti, uno dei migliori chitarristi della storia del rock. Assoli formidabili e di ogni tipo hanno accompagnato quasi tutte le canzoni suonate nelle due ore e venti di concerto. A prescindere dalla lunghezza e dal virtuosismo, a stupire è la capacità di rendere il tutto perfettamente omogeneo. Il vecchio Neil (classe ’45) arriva ad allungare alcuni brani oltre i dieci minuti, senza che nessuno dei presenti distolga sguardo e orecchie neppure per un istante. Mai una nota è sembrata fine a se stessa.
C’è poi un altro motivo che spinge a credere nel soprannaturale parlando di Neil Young. Il tempo non solo si è fermato, come capita per i migliori concerti, ma per qualche minuto si è aperto un varco spazio-temporale e tutto il pubblico si è trovato catapultato alla fine degli anni Sessanta. È successo durante l’assolo di Walk Like A Giant, con il cantante canadese a giocare con gli amplificatori e la sua chitarra per creare effetti di risonanza sorprendenti. È andata avanti così tutta la prima ora, tra qualche pezzo del nuovo bellissimo album e capolavori come Powderfinger. Poi, usciti i Crazy Horse (Frank «Poncho» Sampedro alla chitarra, Billy Talbot al basso e Ralph Molina alla batteria), compagni di avventura di una vita e ulteriore pezzo di storia della musica, è stato il turno di quattro canzoni acustiche con chitarra e armonica a bocca, tra le quali un’immensa Heart Of Gold e una cover d’eccezione di Blowin’ In The Wind. Poi, con il gruppo, il Nostro si sposta al piano per Singer Without A Song, prima di imbracciare di nuovo la chitarra elettrica.
È lei la grande compagna di Neil. Ed è sempre lei la protagonista dell’assolo forse migliore tra i tanti stupendi, quello di Fuckin’ Up (perla di un repertorio che spazia dagli inizi all’ultimo album Psychedelic Pill). È qui che un aspetto diventa chiaro: il concerto di Lucca è qualcosa di superiore a qualsiasi possibile categorizzazione. È stato come sentire suonare per la prima volta. L’esibizione di Neil Young è stata una reale epifania, un disvelamento di cosa sia davvero il rock ‘n’ roll. Di cosa sia stato a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta nel suo momento migliore e più puro, di massima perfezione. E di cosa possa ancora essere. È la sublimazione stessa dell’idea di rock. La perfezione della forma unita alla potenza di una band che ne ha vissute tante e tante cose ancora ne sa raccontare. Verso la fine, a tratti, spunta anche qualche sorriso e cenno d’intesa tra Sampedro e Young. Si stanno divertendo e si sente. E così dal cappello escono, oltre alle prevedibili Mr. Soul (dei Buffalo Springfield, con un riff che ricorda molto Satisfaction dei Rolling Stones) e Cinnamon Girl, anche rarità come Surfer Joe And Moe The Sleaze. La chiusura è con Roll Another Number e Everybody Knows This Is Nowhere. Un viaggio negli ultimi cinquant’anni di rock.
Ecco insomma perché Neil Young è un dio, se non il dio, della musica. Perché sa suonare e sa cantare al massimo livello e soprattutto sa trasmettere emozioni. Perché lo fa a quasi settant’anni con alle spalle una vita non proprio morigerata e un aneurisma che sembra non avere lasciato il minimo segno. Perché non ha bisogno di parlare durante il concerto per instaurare un dialogo con il pubblico, a farlo sono la sua chitarra e le sue canzoni. Perché è un immortale, uno dei pochi a essere sopravvissuto alla fine degli anni Sessanta e ad essere arrivato ad oggi in piena forma. Non chiamatelo dio a voce alta, se vi dà fastidio, ma le parole leggenda, mito o gigante non si avvicinano neppure lontanamente a spiegare chi sia Neil Young.

 
(articolo tratto da http://www.onstageweb.com) 

 

giovedì, luglio 18, 2013

DAUGHTER



[Pronti, ragazzi?]


Sola, svogliata... solo il tavolo da colazione
In una stanza che altrimenti sarebbe vuota
Una ragazzina... Violenze... [*]
Centro delle sue attenzioni
La madre legge ad alta voce,
La bambina cerca di capirla
Cerca di renderla orgogliosa
Calano le ombre,
è nella sua testa
Stanza colorata,
non puoi negare che ci sia qualcosa che va male
Non chiamarmi figlia, non è adatto
La fotografia conservata me lo farà ricordare
Non chiamarmi figlia, non è adatto
La fotografia conservata me lo farà ricordare
Non chiamarmi...

Lei stringe la mano che la tiene schiacciata a terra
Lei risalirà su... ooh... oh
Non chiamarmi figlia, non è adatto
La fotografia conservata me lo farà ricordare (2x)
Non chiamarmi figlia, non è adatto
La fotografia conservata me lo farà ricordare
Non chiamarmi…

Le ombre calano (2x)
Le ombre calano, calano, calano…...

[*] "violins(ence)" gioco di parole tra "violins" (violini) e "violence" (violenza) intraducibile in italiano 

Eddie Vedder - Pearl Jam (dall'album "Vs." del 1993)

martedì, giugno 04, 2013

BRUCE SPRINGSTEEN/ Il concerto di Padova: la notte di Born to Run (e del fantasma di Tom Joad)

Luca Franceschini

sabato 1 giugno 2013

Che sarebbe stata una serata particolare lo abbiamo capito già nel pomeriggio. Attorno alle 17.30, con l’Euganeo ancora in via di riempimento, ecco arrivare Bruce Springsteen in tenuta pre concerto, giacchetta di pelle e occhiali da sole. Saluta sorridente, imbraccia l’acustica e via con una insolita versione di “The promised land”. Il tempo di realizzare che cosa sta succedendo ed ecco che parte anche “Growin’ up”. Poi un semplice “See you later” e via di nuovo nel backstage, così come era apparso.
Improvvisate di questo genere non sono nuove nella carriera del rocker del New Jersey e in questo ultimo tour sembrano diventate più frequenti. Lo aveva fatto anche a Napoli, pochi giorni fa e sono regali che i fan più affezionati, giunti ore prima sul luogo del concerto, non dimenticano mai tanto facilmente. Tre ore dopo, poco prima delle 21, si inizia nuovamente. Bruce ricompare sul palco da solo, chitarra acustica e armonica e attacca una “Ghost of Tom Joad” tirata allo spasimo, una esecuzione tesa e commovente come mai mi era capitato di ascoltare. Non esagero se dico che valeva la pena esserci solo per questo unico brano.
Poi arriva la band e si parte tutti insieme: “Long walk home” è il pezzo scelto per aprire, così come talvolta è
accaduto in questa leg europea. Un brano bellissimo, una perla del repertorio recente del Boss, che dice, dopo decenni di concerti in giro per il mondo, quanto sia bello avere un luogo a cui tornare. L’atmosfera è già calda a sufficienza, lo stadio è pieno e canta all’unisono il ritornello: avanti così e si può solo andare in crescendo. E infatti arriva una “My love will not let you down” che è una autentica fucilata, seguita da una “Two hearts" se possibile ancora più potente. Non credo di sbagliare se dico che un inizio così stellare non lo vedevo da tempo.
Ma, dicevo, da qui in avanti si può solo migliorare: che Bruce sia in forma e incredibilmente su di giri lo si vede quando si avvicina alle prime file per raccogliere i cartelli con le richieste. Stasera vuole iniziare subito a seguire gli umori del pubblico. E la prima scelta è da capogiro: quella “Boom boom” che era presenza fissa nel tour di “Tunnel of love” e che praticamente non si sentiva da allora. Una botta di energia rock che fa saltare e ballare tutti, anche quelli che non la conoscono.
Nuovo giro, nuova richiesta: ecco “Something in the night”, uno di quei brani che, quando c’è, ti cambia il
concerto da cima a fondo. Esecuzione intensissima, con il piano di Roy Bittan in grande spolvero. E sulla
successiva “The ties that bind” (anche questa pescata dalle prime file) ci sentiamo davvero come quegli ospiti
privilegiati a cui si servono solo i vini migliori. Si ritorna per così dire alla normalità con un trittico tratto
dall’ultimo disco: “We take care of our own”, “Wreckin’ Ball” e “Death to my hometown”. La differenza col
materiale storico è evidente ma dal vivo funzionano bene e sono quelle in cui il nuovo assetto della band, con fiati e coristi, risulta maggiormente valorizzato.
Poi, dopo una sempre divertente “Spirit in the night”, accade quello che tutti speravano ma che, per scaramanzia, nessuno osava dire. Bruce cambia rapidamente chitarra, si avvicina al microfono e in perfetto italiano annuncia: “Questa sera, solo per voi, suoneremo tutte le canzoni di “Born to run”. Eccolo qui. Ci siamo. Anche l’Italia ha avuto la sua esecuzione di un album storico. Che dire a questo punto? Nulla. Per poco meno di un’ora si sono susseguiti, secondo l’ordine rigoroso della tracklist originale, gli otto brani di uno dei dischi che ha cambiato per sempre la storia del rock.
Alcune sono delle habitué negli show di Springsteen (vedi l’iniziale “Thunder road” o la title track”), altre molto più dure da sentire (“Meeting across the river”, che col suo intrecciarsi di piano, tromba e voce narrante, mi ha fatto venire i brividi lungo la schiena) ma ascoltarle tutte d’un fiato ci ha resi di nuovo consapevoli che questo è un disco che cambia la vita (come recitava un cartello di un fan, raccolto e letto dallo stesso Bruce prima di iniziare). “Ha cambiato anche la mia, di vita!” ha risposto ridendo. Vero, e non solo nel conto in banca.
Al termine di una “Jungleland” bella come non mai (impressionante il silenzio dello stadio durante l’ultima strofa e la partecipazione commossa durante il celebre solo di sax, che ora è affidato a Jack Clemons, nipote dello scomparso Clarence), non ci sarebbe davvero più nulla da dire. Fosse finito qui il concerto, nessuno si sarebbe lamentato.
E invece la E Street Band è sul palco solo da due ore ed è ancora troppo presto per andarsene. Il resto però, è ordinaria amministrazione. Di qualità eccelsa, ma pur sempre ordinaria. “Shackled and drawn” è l’ultimo episodio di “Wreckin’ Ball” proposto questa sera. Poi l’immancabile “Waitin’ on a sunny day”, dedicata a un nutrito gruppo di croati che poco prima aveva innalzato uno striscione enorme provocando le ire di gran parte del pubblico del prato. Poi l’altrettanto immancabile “The rising” e una “Badlands” che posizionata di nuovo in fondo allo show ha riacquistato, ci sembra, il ruolo che le compete.
I bis (si fa per dire perché dal palco non se ne è andato nessuno) si aprono con una divertente “Pay me my money down”, sulla quale viene invitato dalla prima fila un improbabile personaggio che suonava dei cucchiai su una sorta di cotta di maglia a forma di grattugia. Poi “Born in the USA”, accolta con un boato dal pubblico e con uno sbadiglio dal sottoscritto (un brano che non ho mai amato e che mi spiace sia stato reinserito così tanto nelle scalette). Di ben altra pasta l’ormai celebre versione rock di “Dancing in the dark”, con tanto di fortunata ragazza invitata a ballare durante il solo finale di Jack Clemons. Questa sera Bruce ha strappato più di un sorriso accogliendo l’invito di una ragazza che reggeva un cartello con scritto: “Please, dance with my mother in law”.
“Twist & Shout” non può che essere quella che manda tutti a casa. I continui sorrisi di Bruce e del resto della band sottolineano una volta di più, se ce ne fosse ancora bisogno, che questa è gente che si diverte un mondo a fare quel che fa.
Era la prima volta che Springsteen e la E Street Band suonavano a Padova. Una città che, oltretutto, non ha
grande dimestichezza con i grandi eventi musicali. Beh, stasera le è stato fatto proprio un gran regalo: questo è un concerto che si ricorderà a lungo in Italia, ne siamo certi. E adesso appuntamento lunedì a San Siro: che cosa potrà inventarsi per fare di meglio? Noi un po’ lo immaginiamo ma, sempre per scaramanzia, non diciamo nulla…

© Riproduzione riservata.


(articolo tratto da http://www.ilsussidiario.net)

lunedì, maggio 20, 2013

Prima guardia


Torri come pere, il silenzio è già passato
Nei corridoi resta il fumo della prima guardia
Uomo col fucile, il nemico è la tua noia
Sei prigioniero e resti solo a difenderti dal freddo
Nuoto nel nero, dove sfioro le tue mani
Poi apro gli occhi steso in aria, è la prima guardia
Esplode il mondo e resto solo, dalle mani nasce un fiume
L'alba è un miraggio, che mi esplode dentro
Mi scuserai se parlo una lingua diversa
Un anno è un secolo, 365 croci
E la tua privazione mi taglia la testa
Uomo col fucile, prigioniero della tua bandiera
E corri in tondo, testa in fumo, è la prima guardia
Torri come pere, ma il nemico non esiste
Esplode il nulla e resto solo a difendermi dal buio
Grido l'allarme che mi esplode dentro
Perché noi siamo al mondo problemi diversi
Un anno è un secolo, 365 croci
E la tua privazione mi taglia la testa; avevo una testa
Un anno è un secolo, 365 croci,
E la tua privazione mi taglia la testa
Grido l'allarme che m'esplode dentro
Perché lo so che siamo problemi diversi; lingue diverse.
Trasforma il tuo fucile in un gesto più civile!!

 (Piero Pelù)

martedì, aprile 23, 2013

L'urtimo amico va via


L' urtimo amico va via,
domani se va a sposà,
se gioca la libertà pure lui.
Er vecchio gruppo 'ndò stà,
me li so' persi così
se so' scordati de me,
Tanto amici e poi... tiè!
Ogni cosa se ne và,
finisce er ciclo de 'n'età,
domani chiude er bar in fondo a 'na via.
Quanta nostalgia me viè,
si penso a quanno tutti noi
se giocavamo a carte quarche bottija
Te saluto gioventù,
te ne sei annata pure tu.
Adesso a me che me rimane più.
L'urtimo amico vi via
e 'nzieme a lui l'allegria.
Ce resto sortanto io
a penzà che ho da fa'. 





(Franco Califano, 1972) 




R.I.P. CALIFFO...