mercoledì, gennaio 27, 2010

Nulla è più nostro (27 gen 1945 - 27 gen 2010)



“Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.”

“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine <<>>, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.”

“ Eccomi dunque sul fondo. A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme. Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolamentare, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho imparato a non lasciarmi derubare, e se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia , tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro.”

(Da Primo Levi, Se questo è un uomo)


La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla (...).
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi (...).

Non salutavano, non sorridevano, apparivano oppressi, oltre che da pieta', da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volonta' buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.

[Da Primo Levi, La tregua]

lunedì, gennaio 25, 2010

Inquietudini



E finalmente, sopra l'oscurità dei tetti lustri, la luce fredda del tiepido mattino appare come un supplizio dell'Apocalisse. È di nuovo l' immensa notte della luce che cresce. È di nuovo l' orrore di sempre: il giorno, la vita, l'utilità fittizia, l'attività senza soluzione. È di nuovo la mia persona fisica, visibile, sociale, trasmissibile attraverso parole, che non dicono nulla, utilizzabile dai gesti altrui e dalla coscienza altrui. Sono io un'altra volta, cosi come non sono.
Con l'inizio della luce di tenebre che riempie di dubbi grigi le fessure delle imposte delle finestre (quanto lontano dall'essere ermetiche, Dio mio!), sento a poco a poco che non potrò più conservare il mio rifugio dello stare coricato, di non dormire potendo dormire, di sognare senza sapere che c'è verità o realtà fra un caldo fresco di biancheria pulita e, una non conoscenza, salvo per il conforto, dell'esistenza del mio corpo.
Sento a poco a poco che mi sfugge l' incoscienza beata con la quale sto assaporando la mia coscienza, il sonnecchiare animalesco con cui spio, con palpebre di un gatto al sole, i movimenti della logica della mia immaginazione separata. Sento a poco a poco che mi svaniscono i privilegi della penombra, e i fiumi lenti sotto gli alberi delle ciglia intraviste, e il sussurrare delle cascate perdute fra il rumore del sangue lento negli orecchi e il vago persistere della pioggia. A poco a poco mi perdo fino ad essere vivo.
Non so se dormo o se invece sento soltanto di dormire. Non sogno l' intervallo vero ma come se cominciassi a svegliarmi da un sonno non dormito, avverto i primi rumori della vita della città che salgono come una piena dal luogo vago, laggiù in fondo, dove stanno le strade che Dio ha fatto. Sono rumori allegri, filtrati dalla tristezza della pioggia che cade o che forse è caduta, perchè ora non la sento... (c'è solo il grigiore eccessivo della luce fessurata fino a un dove più lontano che, nelle ombre di un chiarore debole, mi comunica l'insufficienza per questo momento dell'alba che non so quale è). Sono suoni allegri e dispersi e mi fanno male nella coscienza come se attraverso di essi fossi chiamato per un esame o per un'esecuzione. Ogni giorno che sento sorgere dal letto nel quale la conoscenza mi è vietata, mi sembra il giorno di un grande avvenimento che non avrò coraggio di affrontare. Ogni giorno, se avverto quel giorno che si leva dal letto delle ombre, con un cadere di lenzuola giù per le strade e per i vicoli , ogni giorno viene a chiamarmi davanti a un tribunale. Sarò processato ogni oggi che esiste. E il condannato perenne che c'è in me si aggrappa al letto come alla madre che ha perduto, e accarezza il guanciale come se la nutrice lo difendesse dalla gente.
Il riposo felice del grosso animale all'ombra degli alberi, la fresca spossatezza del vagabondo fra l'erba alta, il torpore del negro nel pomeriggio tiepido e lontano, la delizia dello sbadiglio che pesa sugli occhi stanchi, tutto ciò che lusinga l'oblio nel dare sonno, la quiete del riposo nella testa, che chiude piano le imposte dell'anima, la carezza anonima di dormire.
Dormire, essere lontano senza saperlo, esser coricato, dimenticare con il corpo; avere la libertà di essere incosciente, un rifugio del lago dimenticato immobile fra chiome di alberi, nelle vaste lontananze delle foreste.
Un nulla con respiro dal di fuori, una morte lieve dalla quale ci si risveglia con nostalgia e freschezza, un cedere dei tessuti dell'anima ai panni dell'oblio.
Ah, e ancora una volta, come la rinnovata protesta di chi non è convinto, sento il frastuono brusco della pioggia che sciaborda nell'universo schiarito. Sento un freddo fin dentro le ossa ipotetiche, come se avessi paura. E accoccolato, annientato, umano, solo con me stesso nella poca tenebra che ancora mi resta, piango, si, piango, piango di solitudine e di vita, e la mia pena superflua come un'automobile senza ruote giace sull'orlo della realtà fra gli sterchi dell'abbandono.
Piango per tutto: la perdita del grembo, la morte della mano che qualcuno mi tendeva, le braccia che ignoravo come mi abbracciavano, la spalla che non potrei mai avere... E il giorno che sorge definitivamente, la pena che sorge in me come la verità cruda del giorno, quello che ho sognato, quello che ho pensato, quello che si è dimenticato in me stesso: tutto questo, in un amalgama di ombre, di finzioni e di rimorsi, si mescola nell'orbita in cui girano i mondi e cade fra le cose della vita come lo scheletro di un grappolo d'uva, mangiato all'angolo della strada dai monelli che l'hanno rubato.
Il rumore del giorno umano aumenta all'improvviso, come il suono di un campanello che chiama. Schiocca dentro la casa la serratura soave della prima porta che si apre verso l'universo. Sento un rumore di ciabatte in un corridoio assurdo che conduce al mio cuore. E in un gesto brusco, come chi finalmente si uccide, sollevo dal mio corpo duro le coltri profonde che mi riparano. Mi sono svegliato. Il rumore della pioggia si fa più sfumato in altezza, nell'indefinito fuori. Mi sento più felice. Ho eseguito qualcosa che ignoro. Mi alzo, vado alla finestra, apro le imposte con una decisione di grande coraggio. Riluce un giorno di pioggia chiara che mi sommerge gli occhi di luce opaca. Apro anche i vetri della finestra. L'aria fresca mi inumidisce la pelle calda. Piove, si, ma anche se tutto è identico, tutto è in fondo cosi di meno! Voglio rinfrescarmi, vivere, e piego il collo alla vita come a un giogo immenso.

(Fernando Pessoa, dal Libro dell'Inquietudine di Bernardo Soares)

giovedì, gennaio 21, 2010

Parola di Geronimo



lo stavo vivendo pacificamente con la mia famiglia, avevo cibo a sufficienza, dormivo bene, avevo cura della mia gente e stavo benissimo. Non so chi fu il primo a mettere in giro quelle brutte storie.
Ci stavamo comportando bene; e il mio popolo stava bene. lo mi comportavo bene. Non avevo ucciso né un cavallo né un uomo, ne americano né indiano. lo non so di che cosa la gente ci accusasse.
Essi sapevano come stavano le cose e tuttavia dissero che io ero un uomo cattivo: l'uomo peggiore del posto; ma che cosa avevo fatto? lo stavo vivendo pacificamente qui con la mia famiglia sotto l'ombra degli alberi, facendo proprio ciò che il generale Crook mi aveva detto di fare e cercando di seguire il suo consiglio. lo voglio sapere ora chi ha ordinato di arrestarmi. lo stavo pregando la luce e l'oscurità.
Dio e il sole, di lasciarmi vivere tranquillamente qui con la mia famiglia. Non so per quale ragione quella gente parlava male di me. Molto spesso si raccontano storie sui giornali che io sto per essere impiccato. lo non voglio che lo si dica più. Quando un uomo cerca di fare il giusto, simili storie non dovrebbero apparire sui giornali. Ora, sono rimasti pochissimi dei miei uomini, essi hanno fatto alcune cose cattive, ma io non voglio che vengano tutti cancellati e non si parli più di loro, Sono rimasti così pochi di noi.

Goyathlay (Geronimo)

lunedì, gennaio 18, 2010

Discorsi di Capo Giuseppe dei Nez Perces - bis -



Alla sua resa presso le Montagne della Zampa d'Orso, 1877
Dite al generale Howard che io conosco il suo cuore. Ciò che mi ha detto prima l’ho dentro al mio cuore. Sono stanco di combattere. I nostri capi sono stati uccisi. Specchio è morto, Tu-hul-hil-sote è morto. I vecchi sono tutti morti. Ora sono i giovani che dicono sì o no. Colui che guidava i giovani [il fratello di Giuseppe, Alikut] è morto. Fa freddo e non abbiamo coperte. I bambini piccoli muoiono di freddo. La mia gente -- alcuni di loro sono scappati sulle colline e non hanno né coperte né cibo. Nessuno sa dove si trovino -- forse sta morendo di freddo. Voglio avere il tempo di cercare i miei figli per vedere quanti di loro riesco ancora a trovare. Forse li troverò in mezzo ai morti.
Ascoltatemi, miei capi, il mio cuore è malato e triste. Da dove in cui si trova adesso il sole, io non combatterò più l'uomo bianco.

In occasione di una visita a Washington, D.C., 1879
Finalmente mi è stato concesso di venire a Washington e portare con me il mio amico Toro Giallo e il nostro interprete. Sono contento di essere venuto. Ho stretto la mano a molti amici, ma ci sono alcune cose che voglio sapere che nessuno sembra in grado di spiegarmi. Non capisco come può il governo mandare un uomo a combatterci, come fece con il generale Miles, e poi tradire la sua promessa. Un governo simile deve avere qualcosa di sbagliato. Non capisco perché tanti capi possano parlare e dire cose così diverse. Ho visto il grande capo [il Presidente Hayes], il secondo grande capo [il segretario agli interni], il capo commissario e il capo giudice, e molti altri capi [rappresentanti del Congresso] e tutti dicono che sono miei amici e che io otterrò giustizia, ma se le loro bocche dicono la verità, io non capisco perché nulla viene fatto per la mia gente. Ho sentito discorsi e discorsi, ma nulla è stato fatto. Le buone parole non durano molto se non portano ai fatti. Le parole non mi ripagano della mia gente che è morta. Non mi ripagano della mia terra che ora è occupata dagli uomini bianchi. Non proteggono la tomba di mio padre. Non mi ripagano dei cavalli e del bestiame. Le buone parole non mi restituiscono i figli. Le buone parole non faranno tornare buona la promessa del vostro capo di guerra, il generale Miles. Le buone parole non daranno alla mia gente una casa dove essi possano vivere in pace e prendersi cura di loro stessi. Sono stanco di discorsi che non arrivano a nulla. Mi fa male il cuore quando penso a tutte le belle parole e a tutte le promesse non mantenute. Hanno parlato troppo troppi uomini che non avevano diritto di parlare. Sono state fatte troppe interpretazioni sbagliate, e ci sono stati troppi fraintendimenti fra gli uomini bianchi e gli indiani. Se l'uomo bianco vuole vivere in pace con gli indiani, può vivere in pace. Non deve esserci alcun problema. Trattate tutti gli uomini allo stesso modo. Dategli le stesse leggi. Date loro la stessa possibilità di vivere e crescere. Tutti gli uomini sono stati creati dallo stesso Grande Capo Spirito. Sono tutti fratelli. La terra è la madre di tutti i popoli, e tutti i popoli devono avere gli stessi diritti sulla terra. Come non è possibile che tutti i fiumi invertano il loro corso, così un uomo che è nato libero non può essere contento di vivere rinchiuso e di vedersi negata la libertà di andare dove desidera. Se leghi un cavallo a un palo, pensi che ingrasserà? Se rinchiudi un indiano in un piccolo pezzo di terra e lo costringi a rimanere lì, non sarà contento e non crescerà e prospererà. Ho chiesto ad alcuni dei grandi capi bianchi da dove viene loro l'autorità di dire agli indiani di stare in un certo posto, mentre gli uomini bianchi possono andarsene dove desiderano. Non sono stati in grado di dirmelo.
Chiedo al governo soltanto questo: che noi siamo trattati come vengono trattati tutti gli altri uomini. Se non posso tornare a casa, lasciatemi avere una casa in una terra dove la mia gente non muoia così velocemente. Io vorrei andare nella valle delle Radici Amare. Laggiù la mia gente sarebbe felice; dove sono ora stanno morendo. Ne sono morti già tre da quando ho lasciato il campo per venire a Washington.
Quando penso alla nostra condizione, il mio cuore è pesante. Vedo uomini della mia razza trattati come fuori legge e trasportati da una regione all'altra o abbattuti come animali.
So che la mia razza dovrà sopportare un cambiamento. Non possiamo conservare quello che è nostro se ci sono gli uomini bianchi. Chiediamo solo una giusta opportunità per vivere come gli altri uomini vivono. Chiediamo di essere riconosciuti come uomini. Chiediamo che le stesse leggi valgano nello stesso modo per tutti gli uomini. Se un indiano viola la legge, punitelo secondo la legge. Se un uomo bianco viola la legge, punite anche lui.
Lasciatemi essere un uomo libero, libero di viaggiare, libero di lavorare, libero di commerciare dove scelgo di farlo, libero di scegliermi i maestri, libero di seguire la religione dei miei padri, libero di parlare, pensare e agire per me stesso -- e io rispetterò tutte le leggi o sarò punito secondo la legge.
Se gli uomini bianchi tratteranno gli indiani come si trattano fra di loro non ci saranno più guerre. Saremo uguali -- fratelli con lo stesso padre e la stessa madre, con un cielo sopra di noi e una terra intorno a noi e un governo per tutti. Allora il Grande Capo Spirito che governa ogni cosa sorriderà sopra questa terra e manderà la pioggia per lavare le macchie di sangue che le mani dei fratelli hanno lasciato sulla faccia della terra. La razza indiana attende e prega perché venga quel giorno. Io spero che alle orecchie del Grande Capo Spirito non giungano più i lamenti di uomini e donne feriti, e che tutti i popoli possano essere un solo popolo.
Hin-mah-too-yah-lat-kekht ha parlato per la sua gente.

lunedì, gennaio 11, 2010

Licantropia



In qualche luogo i sogni diventeranno realtà.
C'è un lago solitario
illuminato dalla luna per me e per te
come nessuno per noi soli.

Lì la scura bianca vela spiegata
in un vago vento non sentito
guiderà la nostra vita-sonno
laddove le acque si fondono

in un lido di neri alberi,
dove i boschi sconosciuti vanno incontro
al desiderio del lago di essere di più
e rendono il sogno completo.

Là ci nasconderemo e svaniremo,
tutti vanamente al confine della luna,
sentendo che ciò di cui siamo fatti
è stato qualche volta musicale.

(Fernando Pessoa)

venerdì, gennaio 08, 2010

Gli dèi sono felici



Vivono la vita calma delle radici.
I loro desideri non li opprime il Fato,
o, se li opprime, li redime
con la vita immortale.
Non hanno ombre o altri che li attristino.
E, inoltre, non esistono...


(Fernando Pessoa)